Perché l’identità di genere serve nel disegno di legge Zan

Sembra che i motivi per i quali una larga parte della comunità trans* insiste su questa formulazione siano filosofici, o “capricciosi”; in realtà le motivazioni sono sia tecnico-giuridiche, sia di ordine pratico.
Sul piano giuridico, non è affatto vero che l’espressione “identità di genere” sia sconosciuta al nostro sistema; il diritto non è fatto solo di norme ma anche di giurisprudenza e di dottrina.
La giurisprudenza, nelle sue alte espressioni della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, da anni utilizzano questa formulazione.
A solo titolo di esempio, nella sentenza 15138/2015, la Corte di Cassazione, nello stabilire che non sono necessari interventi chirurgici per la rettifica anagrafica, fece riferimento all’identità di genere, anzi al “diritto all’identità di genere inteso come interesse della persona a vedere rispettato nei rapporti esterni ciò che il soggetto è e fa”.
Nella Sentenza della Corte Costituzionale 180/2015, l’espressione “identità di genere” ricorre 20 (venti) volte, e spesso nel contesto del “diritto fondamentale alla propria identità di genere”.
Se la Corte Costituzionale considera l’identità di genere un diritto fondamentale, sostenere che si tratti di una formulazione impalpabile, ambigua e non riconosciuta, o rappresenta ignoranza, oppure strumentalizzazione.
Che cosa sia l’identità di genere non è affatto un mistero: si tratta del senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza o non appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna, io non sono né un uomo né una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita.
Molto concretamente, è ciò che permette a me di affermare che sono una donna.
Un altro motivo sul piano giuridico riguarda proprio la ratio della norma, che così come fu per la cd Legge Mancino, intende colpire motivazioni e non proteggere condizioni.
Sostituire “identità di genere” con “transessualità”, quindi, farebbe perdere alla norma anche un senso logico elementare, perché se uno dei motivi può essere l’orientamento sessuale, e non l’omosessualità, o la bisessualità, o la pansessualità o qualsiasi altra condizione riferita all’orientamento sessuale, allo stesso modo non può essere la transessualità ma l’identità di genere.
Orientamento sessuale e identità di genere sono dimensioni, omosessualità e transessualità sono condizioni di quelle dimensioni.
Che senso avrebbe una norma che colpisse comportamenti fondati sulla transessualità? Ma anche senza essere fini giuristi, proprio nella lingua italiana?
E’ importante, piuttosto, mantenere salda l’ispirazione della norma: non è importante che il soggetto colpito sia nero, o di un’altra religione, o gay, o transgender: è importante che i motivi che ispirano il comportamento sanzionabile siano riferiti all’etnia, alla religione, all’orientamento sessuale o all’identità di genere.
Se un ragazzo eterosessuale viene malmenato perché individuato come gay, e dal contesto concreto questo emerge, questo basta a far rientrare il comportamento nella fattispecie: non è importante che il ragazzo sia effettivamente gay.
Inoltre, ci sono motivazioni anche sotto il profilo più ampio rappresentato dalle lotte che la comunità transgender ha condotto nell’ultima quindicina d’anni per la depsichiatrizzazione, così come accadde oltre trent’anni fa per l’omosessualità: non c’è alcun bisogno di etichette legali riferite a condizioni che, a partire dal 1° gennaio 2022, saranno derubricate tra le condizioni legate alla salute della persona e non più patologizzate.
Non vediamo motivi per usare “transessualità”, termine di origine psichiatrica, proprio all’alba di un nuovo giorno in cui la condizione viene depsichiatrizzata.
Sul piano pratico, poi, ci sono ottimi motivi per continuare a sostenere la necessità di questa formulazione ed escludere categorizzazioni che richiedono qualche “bollino” esterno: le persone che più di tutte, all’interno della comunità trans*, dovrebbero trovare protezione sono quelle fuori dai percorsi canonici medicalizzati, che si propongono in base ad una rappresentazione di sé estranea ai canoni binari e che, proprio per questo, vengono più duramente emarginate ed esposte ad atti di violenza.
Continuiamo a chiedere fermamente che la formulazione “identità di genere” resti nel testo del disegno di Legge Zan, proprio per quella parte della nostra comunità che è meno protetta e più vulnerabile.

Perché l’identità di genere serve nel disegno di legge Zan